India – Echi di una strage (2015)

Qual è la causa che ha determinato l’aumento dei suicidi tra gli agricoltori indiani negli ultimi decenni?
La battaglia per la soluzione di questo enigma si protrae tra due fronti ben distinti: da una parte c’è la corrente di pensiero capeggiata dall’attivista e ambientalista indiana Vandana Shiva, che si oppone alle nuove monoculture – rischiose per gli equilibri del territorio ed il mantenimento della biodiversità – ed alla dipendenza da sementi ibride e fitofarmaci, causa del progressivo impoverimento dei contadini. Dall’altro lato ci sono le multinazionali, che vedono nell’India la possibilità di ampliare la propria piattaforma commerciale e di applicare sul campo le ultime scoperte dell’ingegneria genetica.
Dopo aver vissuto in India, la mia risposta alla diatriba non può essere che una: l’aumento dei suicidi è innegabilmente legato all’arrivo delle multinazionali, dei pesticidi chimici e dei semi OGM.
Per dimostrare questa tesi ho scelto i documenti più attendibili ai quali ho avuto accesso: il rapporto “Accidental Deaths and Suicides in India”, lo “State of Indian Farmers: a Report” e l’indagine “Situation Assessment Survey of Agricultural Programme”. Un’analisi incrociata delle statistiche qui riportate mi ha permesso di mostrare il legame che unisce il saggio di suicidi tra gli agricoltori ai maggiori interventi delle multinazionali nel subcontinente.

Gli storici hanno definito “rivoluzioni verdi” quei processi (tecnici, chimici, biologici, ecc.) che hanno portato un cambiamento significativo in ambito agricolo. Partendo dal Messico, la prima di queste rivoluzioni ha raggiunto l’India all’inizio degli anni ’50 del ventesimo secolo, con lo scopo di aumentare le derrate alimentari per ridurre la fame nel mondo.
Per ottenere tali risultati sono stati impiegati fitofarmaci, concimi chimici, tecniche di irrigazione innovative ed incroci selettivi; si è assistito inoltre ad una forte meccanizzazione e ad uno scambio di colture tra continenti. Tutto ciò ha comportato alcuni effetti collaterali: l’impoverimento del valore nutrizionale dei raccolti, l’omogeneizzazione delle diete (perdita di biodiversità), l’inquinamento e l’alterazione del pH del suolo.
A tutto questo si aggiungono la dipendenza dai combustibili fossili, accentuata dalla maggiore quantità di energia richiesta dal processo di produzione, e la riduzione del bisogno di manodopera, direttamente proporzionale alla crescita dell’urbanizzazione.

Ma se la prima rivoluzione verde, insieme ai suoi lati oscuri, ha portato sicuramente notevoli miglioramenti nella produzione cerealicola (si parla di un aumento del 300% tra il 1967 ed il 1979), lo stesso non si può dire della “seconda rivoluzione verde”, caratterizzata dall’introduzione degli OGM (organismi geneticamente modificati), che a conti fatti non ha portato ad altro se non all’arricchimento delle multinazionali che li hanno introdotti (imposti) sul mercato indiano.

Innanzitutto è utile fornire un quadro generale dei protagonisti della vicenda.
Uno di questi è la Monsanto: nata nel 1901 a Saint Louis, nel Missouri, come industria chimica, oggi è una delle principali produttrici di OGM nel mondo, ed il suo prodotto di punta è l’erbicida Round Up.
Nel maggio del 1987 la multinazionale ricevette le dimissioni da parte di Tiruvadi Jagadisan, direttore responsabile del marketing in India. Quest’ultimo era infatti venuto a sapere che la Monsanto non voleva più investire denaro nel suo paese, perché “non aveva sufficiente fiducia nell’India”. La stessa fonte gli rivelò che presto la multinazionale sarebbe passata dal mercato degli erbicidi a quello dei semi geneticamente modificati, inserendovi anche un gene Terminator (capace cioè di interrompere la riproduzione delle piante, facendole autodistruggere dopo il raccolto) per assicurarsi l’egemonia sulla vendita delle sementi.
Le previsioni si rivelarono fondate: presto il cotone BT fece la sua comparsa nei campi del subcontinente, provocando non pochi disastri nelle colture locali.

Il cotone BT deve il suo nome al Bacillus Thurigensis. Si tratta di un batterio del suolo, del quale un gene specifico è stato riprodotto in laboratorio (in versione sintetica) ed inserito nel DNA del cotone. In tal modo la pianta riesce a produrre la tossina BT, capace di distruggere il germe rosa del cotone, il suo maggiore infestante. Quando il germe ingerisce una qualsiasi parte della pianta, essa ne attacca l’intestino e lo uccide.
Niente male come teoria, ma nella pratica i risultati sono stati molto meno incoraggianti.
Prima di elencare le effettive conseguenze di queste “innovazioni” e delle varie manovre eseguite dalle multinazionali in India, è necessario gettare uno sguardo ravvicinato sull’effettiva condizione degli agricoltori (distribuzione sul territorio, clima, ecc.).

Non è facile districarsi nella grande quantità di dati che abbiamo a disposizione; inoltre alcuni studi contengono uno “slancio patriottico” decisamente fuori luogo in un’analisi obiettiva e rigorosa.
Altri invece, dal lato opposto, sono viziati da quella che può essere gentilmente definita una “campagna pubblicitaria scorretta”. Ecco un esempio: tra i documenti presumibilmente imparziali ai quali mi sono affidato c’è il rapporto “Accidental Deaths and Suicides in India”, pubblicato ogni anno da un’agenzia governativa indiana (il National Crime Record Bureau – NCRB). Nell’analisi delle serie storiche tuttavia sono stato costretto a fermarmi all’anno 2013: guarda caso dal 2014, ovvero da quando i suicidi tra gli agricoltori hanno una voce a sé stante, le percentuali sono curiosamente migliorate, mostrando una situazione più rosea e decisamente in controtendenza rispetto agli anni precedenti. Perché? Alcuni articoli parlano di corruzione del governo indiano, ma non sta a me giudicare e ovviamente non ho le prove per poterlo fare.

Andiamo avanti: altre fonti autorevoli sono lo “State of Indian Farmers: A Report”, che fornisce una panoramica generale su quali siano le condizioni di questa classe di lavoratori; l’analisi del CSDS (Centre for the Study of Developing Societies), riguardante i dettagli del profilo socio economico degli agricoltori indiani; ed infine il National Sample Survey Office (NSSO) del Ministry of Statistics and Programme Implementation (MoSPI) indiano, che ha svolto l’indagine denominata “Situation Assessment Survey of Agricultural Programme”. I seguenti istogrammi, tratti da quest’ultimo studio, permettono di delimitare i territori dedicati all’agricoltura nelle varie regioni, collocandovi l’esatta percentuale di famiglie che si dedicano a questa professione. Negli anni 2012 – 2013 è stato infatti stimato che queste ultime fossero circa 90,2 milioni in tutto il subcontinente, ovvero il 57,8% delle famiglie rurali.

Concentriamoci adesso sul cotone, del quale l’India è il secondo produttore mondiale. Ne consegue che una grande percentuale della popolazione si dedichi a questa attività, di per sé non molto remunerativa: un raccoglitore di cotone guadagna qualcosa come 100 rupie al giorno, cioè circa 1,25 euro, appena sufficienti per sfamare la famiglia. Al tempo stesso però sono richiesti molti sacrifici: i proprietari terrieri, oltre a dover pagare molti raccoglitori, hanno anche l’obbligo di sorvegliare i campi nottetempo per proteggere i germogli del cotone dagli attacchi di cinghiali, mucche ed elefanti. La vita è molto dura, si è costretti a vivere lontani dalla famiglia, a dormire poco e contemporaneamente a risparmiare qualcosa per la casa e l’educazione dei figli.

Nel 1991, in Vidarbha, se un agricoltore cresceva la varietà di cotone nativa e ne comprava i semi al mercato indiano, questi costavano 9 rupie al chilogrammo. I semi ibridi (cioè ottenuti tramite innesti o incroci selettivi) costavano invece dalle 350 alle 400 rupie per 450 grammi.
Tra il 2002 ed il 2004 è arrivato il cotone BT, già introdotto illegalmente in precedenza. I semi BT costano dalle 1.650 alle 1.800 rupie ogni 450 grammi; il prezzo al chilo è quindi di circa 4.000 rupie, contro le 9 di dieci anni prima.

Una grande macchina pubblicitaria è stata messa in moto per convincere i contadini che il cotone BT è migliore delle altre tipologie. Ma le promesse si sono rivelate infondate: i semi di cotone OGM hanno bisogno di molta più acqua e di ingenti dosi di prodotti chimici (fertilizzanti o antiparassitari), a prezzi inaccessibili. Risultato: perdite immediate nell’ordine di 50.000 rupie.

L’enorme indebitamento è dovuto anche all’impossibilità dei coltivatori di accedere al credito tramite le istituzioni, bensì soltanto attraverso prestiti usurari, con interessi elevatissimi. Nelle varie statistiche si parla di un range che va dal 30% al 60%, ma gli agricoltori locali che ho intervistato hanno rivelato percentuali decisamente maggiori.

C’è un altro problema che affligge l’agribusiness indiano: le royalties.
Questo termine indica il diritto di proprietà intellettuale, proprio del titolare di un brevetto, che comporta il pagamento di una somma di denaro da parte di chiunque effettui lo sfruttamento del bene in questione. Ed i beni in questione sono ovviamente i semi OGM. Riguardo al cotone BT, per esempio, delle 3.600 rupie al chilo di costo iniziale, ben 2.400 erano royalties dovute alla Monsanto. Un prezzo irragionevole, considerando anche il fattore fondamentale del gene Terminator: se il raccolto va male, i semi prodotti sono comunque sterili, e gli agricoltori devono comprare di nuovo altri semi OGM.

In questo modo le persone vengono private della propria sovranità alimentare, sono travolte dai debiti e cadono in povertà. L’unica soluzione è quella di trasferirsi in città, trovare un lavoro stipendiato e comprarsi da mangiare. Vendere la propria terra però non è sufficiente a procurarsi il denaro necessario per iniziare una nuova Vita: quei soldi infatti ripagano soltanto i vecchi debiti. Per questo motivo spesso chi arriva nelle metropoli è già troppo povero o ancora indebitato, e di conseguenza non riesce né ad inserirsi né a trovare di che vivere. Con questi presupposti purtroppo la realtà indiana non offre molte prospettive, e spesso la disperazione conduce verso l’alternativa più estrema: il suicidio. Le donne non ereditano i debiti, così la morte dell’uomo “salva” la famiglia.

Tutto questo però non basta: quale è la chiave concreta che ci consente di osservare il legame diretto tra l’aumento di suicidi e gli interventi delle multinazionali in India?
Fin qui non abbiamo ancora dimostrato nulla, ma soltanto riportato fatti e numeri. Soltanto un’analisi incrociata delle statistiche presenti nei vari studi sopra citati può gettare una luce sulla realtà socio-economica ed agricola indiana delle ultime decadi, permettendoci di collegare gli eventi culminanti riportati dalle cronache (sbalzi climatici, manovre espansionistiche delle multinazionali, malattie delle piante, ecc.) con i periodici aumenti di decessi per suicidio avvenuti tra gli agricoltori indiani.

Vediamo allora nel dettaglio in quali anni si sono verificati eventi significativi nel subcontinente, in concomitanza con un picco nel saggio di suicidio tra gli agricoltori (date e saggi evidenziati in rosso nella tabella sottostante).

La tabella è molto chiara: riporta l’anno ed i suicidi che sono avvenuti in corrispondenza dello stesso. A noi interessa l’ultima colonna a destra, che descrive il saggio dei suicidi, cioè il rapporto tra il numero di suicidi (nella terza colonna) ed il totale della popolazione (quarta colonna). In rosso sono evidenziati gli sbalzi di maggiore entità.

1999

  • La Monsanto acquista la Mahyco, la più grande azienda sementiera indiana;
  • Progressivo aumento del costo delle sementi;
  • Guerra con il Pakistan.

Dunque… La guerra si è concentrata nel nord del paese, e comunque i suicidi non ne sono di certo la conseguenza principale.
È inoltre decisamente improbabile che il drastico aumento del saggio di suicidio sia stato dovuto alla manovra della multinazionale: se non altro le eventuali conseguenze sui raccolti, e quindi sui contadini, si sarebbero manifestate negli anni a venire, non subito.
Neppure negli anni precedenti al 1999 sono stati registrati fatti degni di particolare interesse in campo agricolo (tranne appunto il progressivo aumento del costo dei semi, fattore comunque difficilmente classificabile), quindi sembra che non ci siano “motivi verdi” così evidenti all’origine dell’aumento dei suicidi tra gli agricoltori.

Sempre che essi, naturalmente, riguardino questa classe di lavoratori: è infatti necessario, per una corretta dimostrazione della tesi, che la classe di individui più colpita dall’aumento dei suicidi sia proprio quella degli agricoltori, categoria sulla quale, ovviamente, hanno avuto un maggiore impatto gli effetti provocati dagli interventi delle multinazionali che operano in campo agricolo.

Occorre però fare ancora qualche passo prima di poter osservare le varie “categorie umane” coinvolte nel fenomeno dei suicidi.

Prendendo in mano i grafici dell’ “Accidental Deaths and Suicides in India”, relativi al 1999, si può dedurre quanto segue: gli Stati con maggiori percentuali di suicidi (West Bengala, Maharashtra, Karnataka, Tamil Nadu, Andhra Pradesh e Kerala) sono gli stessi che nelle pagine precedenti figurano tra i “primi in classifica” circa il numero di famiglie di agricoltori.
Nella distribuzione delle vittime secondo la professione che svolgono, lo spicchio più grande è riservato ai lavoratori autonomi, seguiti dalle casalinghe (sulle quali non ho modo di approfondire).
È importante invece analizzare la categoria dei lavoratori autonomi nel suo insieme, benché sul documento originale compaia in calce anche la percentuale di agricoltori inclusi in questa categoria; essa è quasi sempre maggiore di un terzo, ma non la riporterò qui: esiste un grande numero di articoli e servizi carichi di proteste e accuse di falsificazione di tali percentuali, soprattutto dal report del 2014 in poi. Non le ritengo perciò sufficientemente attendibili.
Proseguendo si può osservare che le principali cause di suicidio sono così suddivise: “problemi familiari”, “malattie”, “non specificati”, “altri”… Niente di utile per la nostra ricerca.

Questi frammenti di informazione sono ancora lontani dal dimostrare la diretta connessione tra la morte degli agricoltori e l’operato delle multinazionali. Forse però la prossima tabella può fornirci un indizio importantissimo:

I mezzi utilizzati per suicidarsi: al primo posto il veleno, con 37,2 punti percentuali (metà dei quali riferiti agli insetticidi), seguito
dall’impiccagione (25,2%) e poi dal fuoco e dall’annegamento.

La percentuale più alta di suicidi è commessa tramite l’ingerimento di veleni, la metà dei quali sono insetticidi.

Ricapitoliamo: abbiamo il numero più elevato di suicidi commessi da lavoratori autonomi nelle zone a maggiore intensità agricola, ingerendo dei veleni che si rivelano essere in gran parte insetticidi. Tutto questo non suscita almeno qualche domanda?

2007

  • La Monsanto brevetta le “sementi Terminator”: Genetic Use Restriction Technology;
  • È importante inserire qui anche il seguente fatto di cronaca: nel 2006 moltissimi raccolti, in tutto il Paese, sono stati distrutti da una malattia che colpisce soltanto gli OGM (la Rhizoctonia);
  • Tra il 2006 ed il 2007 il PIL indiano ha registrato un tasso di crescita del 9,4%: “l’economia è tra quelle a più rapida crescita nel mondo”.

Possiamo tranquillamente affermare che l’economia non è la causa di un aumento di 0,3 punti percentuali nel saggio dei suicidi. In questo caso però il “fattore multinazionale” si fa più incisivo: la rovina dei raccolti OGM registrata l’anno precedente può aver manifestato i suoi effetti sulla condizione dei contadini. Inoltre sappiamo che nel 2007 le sementi Terminator sono entrate ufficialmente nel mercato indiano: chi le ha acquistate sapeva fin da subito che la mal riuscita di un raccolto avrebbe significato il fallimento, poiché i semi nati sarebbero stati sterili.

Grafici alla mano, i risultati sono gli stessi del 1999: gli Stati nei quali si registra il maggior numero di suicidi sono quelli ad alta attività agricola, proprio come mostrano gli istogrammi iniziali. Anche la categoria più colpita rimane quella dei lavoratori autonomi, e di nuovo la maggior parte di coloro che commettono suicidio (34,8%) lo fa ingerendo un veleno, che in più della metà dei casi risulta essere un insetticida. E ovviamente sono gli agricoltori ad avere il più facile accesso a tali veleni.

Da questa data in poi si assiste ad un progressivo incremento del saggio dei suicidi, che culmina nell’ultimo picco registrato tra gli annali del NCRB:

2010

  •  Come il 2009, è un anno di grave siccità (ricordo ai lettori che le piante di cotone OGM necessitano di un’irrigazione maggiore rispetto alle colture normali). Gli agricoltori biologici guadagnano circa il 200-300% in più rispetto a chi coltiva sementi transgeniche.

Passando allo studio dei resoconti dell’“Accidental Deaths and Suicides in India” otteniamo ancora una volta i medesimi risultati: le regioni più colpite sono quelle dove si registra la più alta concentrazione di famiglie agricole, la classe interessata è quella dei lavoratori autonomi (41,1%), i motivi all’origine del suicidio non ci forniscono indizi utili e la modalità preferita resta l’ingerimento di un insetticida (per più della metà di coloro che utilizzano un veleno).
Voglio entrare ancora di più nel dettaglio, soprattutto riguardo ai picchi verificatisi nel ventunesimo secolo. Ecco qui di seguito due tabelle che specificano il numero di suicidi commessi ingerendo un veleno negli Stati con maggiore incidenza di casi:

Andhra Pradesh, Maharashtra, Tamil Nadu, Karnataka, Kerala, Gujarat e Orissa sono in vetta alla classifica. Le regioni con il maggior numero di suicidi per auto-avvelenamento compaiono tutte tra quelle con il maggior numero di famiglie agricole, come mostrano gli istogrammi all’inizio.

In conclusione, questa minuziosa analisi dei dati a nostra disposizione ha rivelato che i picchi nell’aumento dei suicidi cadono esattamente in corrispondenza degli anni in cui la Monsanto e altre organizzazioni internazionali (o eventi climatici interni come la siccità e le malattie delle piante, anch’essi legati al “funzionamento” degli OGM) hanno colpito più duramente il territorio indiano.

Alla luce di questa ricerca non posso che dar credito a Vandana Shiva e a chi, come lei, difende i diritti di quei popoli economicamente più deboli e tecnologicamente meno avanzati, ma che al tempo stesso sono in grado di vivere dignitosamente facendo ricorso soltanto alle proprie risorse, mantenendo inalterata la propria indipendenza e la propria libertà.

Fonti

Bibliografia

Batchelor Stephen, “Il Risveglio dell’Occidente”, Roma, Astrolabio – Ubaldini Ed., 1995.

CSDS (Centre for the Study of Developing Societies), “State of Indian Farmers: A Report”, Delhi, 2014.

Mukherjee Radha Kamal, “The Economic History of India 1600-1800”, Kitab Mahal, Calcutta, 1967.

NSSO (National Sample Survey Office), “Situation Assessment Survey of Agricultural

Programme”, Mahalanobis Bhavan, Calcutta, 2013.

Possehl Gregory, “Indus Age; The Beginnings”, 6, University of Pennsylvania Press, 1999.

Shiva Vandana, “India spezzata” [“India divided”], Milano, Il Saggiatore, 2008.

U.S. FDA – Biotechnology – Statement of Policy – “Foods Derived from New Plant Varieties”, 29 maggio 1992.

Documentari

Behind the label”, di Cecilia Mastrantonio e Sebastiano Tecchio, 2012.

Il mondo secondo Monsanto”, realizzato da Marie-Monique Robin nel 2008.

Siti consultati

http://ncrb.gov.in/

http://ncrb.nic.in/adsi/main.htm

http://www.csds.in/

http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/09/13/india-rapporto-oms-primo-posto-al-mondo-persuicidi/1119932/

http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-8a01cd9f-197d-49be-9ce6-372698afd5c5.html#p=

https://www.thehindu.com/news/national/other-states/Maharashtra-records-most-farmer-suicides-NCRB/article60326026.ece

https://makanaka.wordpress.com/tag/crop/