Nel linguaggio comune la parola Dharma (devanāgarī: धर्म) non è molto frequente, spesso sostituita dal più famoso concetto di Karma (devanāgarī: कर्मन्,vedi “Cos’è il Karma e come incide nella reincarnazione”). La prevalenza di quest’ultimo è dovuta in parte all’accostamento dei due termini, che all’orecchio occidentale suonano molto simili, in parte ad una incomprensione del loro significato.
Già nell’articolo “I misteri irrisolti e la sindrome della teoria del complotto” si parla di Dharma, sottolineando che esso include l’insieme di “azioni personali che generano o mantengono l’ordine cosmico. Rispettare il Dharma significa quindi seguire quella serie di norme che sono alla base dell’universo naturale e di quello sociale all’interno del quale l’individuo si trova a vivere.”
Secondo i principi delle maggiori religioni-filosofie dell’Oriente, quali Buddhismo, Induismo e Brahmanesimo, per liberarsi dalla serie infinita di reincarnazioni nei mondi di terza e quarta dimensione è necessario purificare il proprio Karma e seguire il proprio Dharma.
Questo importantissimo “indizio per la crescita spirituale” compare in molte grandi opere del passato, come ad esempio nella Bhagavadgītā (devanāgarī: भगवद्गीता), già citata nell’articolo “Dimensioni quantistiche e Yogin vegani: l’inutilità spirituale della dieta vegana”, dove Krishna istruisce il principe Arjuna circa i suoi doveri di guerriero e protettore del suo popolo.
Dharma: alcune definizioni
Prima di approfondire le parole di Krishna ed il contesto all’interno del quale si svolge la battaglia della Bhagavadgītā, parte del vasto poema epico Mahābhārata (devanāgarī: महाभारत), è utili osservare alcune definizioni della parola Dharma.
Come gran parte dei concetti provenienti dall’Oriente, infatti, sono molte le sfumature acquisite da questo termine durante il suo viaggio nel tempo e tra i Paesi asiatici. Per abbracciarne il significato a 360 gradi, occorrerebbe conoscere in modo approfondito tutte le dottrine che lo hanno incluso nei propri dogmi, e poi spogliarlo delle mille sfaccettature per risalire all’essenza della sua radice. Naturalmente un simile lavoro non è possibile in un articolo di blog.
Possiamo tuttavia tentare di raccogliere i diversi significati di Dharma sopraggiunti nel ventunesimo secolo, cercando un filo comune che possa rivelarne il senso profondo.
Il Dharma nelle religioni dell’Asia meridionale
L’immenso bagaglio culturale contenuto nelle scritture sacre dei Veda (devanāgarī: वेद), retaggio prima orale e poi scritto dei popoli arii che invasero l’India settentrionale più di 4000 anni fa, associa al termine sanscrito Dharma i significati di “dovere”, “legge”, “virtù”, “giusta condotta”. Nell’accezione di Dharma sono inclusi anche “il modo in cui le cose sono” e l’equivalente occidentale di “religione”, che tuttavia può portare fuori strada.
Infatti, soprattutto nella sua forma più antica, “dharmān”, la parola è spesso collegata alla sillaba “ṛta” (devanāgarī: ऋत), che sottende l’ “Ordine Cosmico” cui tutto soggiace.
Questo ordine cosmico non poteva che allacciarsi intimamente al destino dell’essere umano, o meglio al suo “karman”, forma antica della più nota legge del Karma, che imputa la condizione dell’uomo alla “correttezza” dei suoi pensieri e delle sue azioni.
Quindi, se il Karma è “ciò che capita” come conseguenza del proprio agire, il Dharma è l’insieme di doveri-leggi che l’individuo deve rispettare per armonizzarsi con l’universo naturale e il proprio sistema sociale.
Nell’India del passato il concetto di Dharma era strettamente legato all’appartenenza alle diverse classi sociali: gli indù di casta brahmanica, ad esempio, dovevano occuparsi di conciliare la benevolenza degli dèi; gli kshatriya erano i guerrieri, e così via.
Fin dall’antichità però si è notato un conflitto tra quei comportamenti che avrebbero potuto causare Karma negativo e un sottoinsieme di azioni sociali inevitabili per ottemperare al proprio Dharma. L’esempio più tipico è l’omicidio.
Come poteva un guerriero svolgere il proprio dovere senza uccidere i nemici?
Scopriamo allora che in alcune circostanze eccezionali la “normativa dharmica” poteva essere sospesa (āppadharma), oppure, come accennato nei paragrafi precedenti, il Dharma si faceva addirittura più forte del Karma, impedendo il sopraggiungere di conseguenze negative nonostante l’apparente efferatezza di alcuni gesti.
È proprio la Bhagavadgītā a rivelare questo affascinate aspetto del pensiero indù, perfettamente integrato con le inevitabili atrocità storiche caratteristiche del Kali Yuga: un’epoca, tuttora in corso, caratterizzata da guerre e ignoranza spirituale.
Il poema narra la battaglia di Kuruksetra, la piana dove si affrontano i due rami della famiglia Kuru, i Kaurava e i Pāndava. Ecco una curiosità: questa pianura è conosciuta anche con il nome di Dharma Kṣetra.
Facendo un passo avanti dell’esplorazione del termine, per inserirlo meglio nel contesto, scopriamo che “Dharma” deriva dalla radice “dhṛ”, che significa sostenere, mantenere, appoggiare; come già detto, sottintende anche religione, legge, merito morale, rettitudine e buone opere.
È, insomma, il codice di comportamento che sostiene l’anima e produce virtù, moralità o merito religioso, e viene considerato uno dei quattro fini dell’esistenza umana.
Nel nome Dharmakṣetra è affiancato alla parola “Kṣetra”, che indica il corpo, considerato proprio come campo dell’attività.
Ecco allora che, aiutato dalle parole illuminate di Krishna, sotto le mentite spoglie di cocchiere, il principe Pāndava Arjuna riesce a “compiere il suo dovere di guerriero sul campo dell’azione concreta”, superando i sentimenti di angoscia, pietà e tormento e riuscendo a fronteggiare i malvagi cugini Kaurava (discendenti di Kuru).
“In verità mai ci fu un tempo in cui Io [è Krishna a parlare] non esistessi, e anche tu e tutti questi regnanti, e mai nessuno di noi cesserà di esistere. […] Si sa che i corpi avranno comunque una fine, ma lo spirito che vi si incarna, il Sé, è indistruttibile, eterno e incommensurabile. Quindi combatti, oh Arjuna.
[…] Colui che pensa che il Sé uccida o che possa essere ucciso non lo conosce. […] Questo Spirito dimora nel cuore di ognuno ed è eternamente inviolabile, quindi, oh Arjuna, non dovresti affliggerti per nessun essere vivente.
[…] Queste dottrine sono animate da desideri che aspirano a gioie celestiali, e che parlano delle rinascite promettendo ricompense per le proprie azioni; […] Ma sappi che, in coloro che sono sedotti dal piacere e dal potere, […] non si può verificare l’Illuminazione.
[…] È tuo dovere e competenza solo l’agire, ma che questo non sia motivato dal desiderio dei frutti dell’azione. E non sorga neanche in te l’adesione al non agire. […] Avendo rinunciato ai frutti dell’azione, il saggio […] è anche liberato dalle catene delle rinascite.
[…] L’uomo che sa rimanere indisturbato, nonostante il flusso dei desideri, così come l’oceano rimane immutabile nonostante numerosi fiumi vi si gettino, ottiene la pace. Ma non può ottenerla chi anela a goderne. […] Raggiunge la pace l’uomo che, rinunciando ai desideri, vive senza senso di possesso, senza morbosità e senza egoismo.
[…] Non è con l’astenersi dal compiere ogni agire che l’uomo può liberarsi dai legami dell’azione e dalle loro conseguenze. E nemmeno la semplice rinuncia ai suoi frutti può innalzare l’uomo alla perfezione.
[…] Compi dunque le azioni che ti competono per dovere e secondo la tua natura, perché l’agire è meglio del non agire. […] Oh Arjuna, se quaggiù l’uomo non contribuisce a far girare questa grande ruota, così come è stata concepita, la sua vita è da considerarsi empia.
Perciò impegnati nel compiere l’azione che ti compete, ma con l’animo distaccato dal volerne godere, perché l’uomo che agisce con tale spirito raggiungerà il sommo Bene.
[…] È difficile comprendere le intricate vie dell’agire. Bisogna prima distinguere la natura intrinseca dell’azione, dell’azione sbagliata e del non agire. Colui che può vedere l’agire nel non agire, e il non agire nell’agire, è il più savio tra gli uomini. Egli è unificato nello yoga e svolge sempre i suoi compiti.”
Il Dharma nel Buddhismo
Nel Buddhismo il Dharma è il secondo dei Tre Gioielli di Buddha (Triratna, tradotto anche come “tre tesori”, già incontrati, in un altro contesto, nell’articolo “Jing, Qi, Shen, i tre tesori: risveglia il tuo potenziale e vivi in salute”).
La pratica buddhista inizia infatti “prendendo rifugio” nei Tre Gioielli, cammino che porta al superamento della sofferenza tipica del saṃsāra (devanāgarī: संसार, in sanscrito “scorrere insieme”), l’esistenza ciclica.
- Il primo dei tre gioielli è il Buddha: prendervi rifugiosignifica “generare un profondo apprezzamento e rispetto per Buddha, lo stato illuminato con tutte le sue qualità di saggezza e compassione.”
- Il secondo gioiello è proprio il Dharma: in questa fase “il praticante si dedica a studiare e applicare i metodi insegnati dal Buddha. È il processo che lui stesso ha attraversato. Applicare le sue istruzioni significa che il praticante gradualmente elimina tutti i veli che oscurano la vera natura della sua mente di Buddha. Così il Buddha-dharma è il rimedio contro tutte le illusioni samsariche.”
- Il terzo ed ultimo gioiello è il Sangha. Esso “è relativo ai maestri illuminati che hanno praticato loro stessi questo cammino e quindi sono autentici amici spirituali per gli altri praticanti. Quindi si prende rifugio nel nobile Sangha in quanto guide e amici spirituali sul cammino.”
Per altre informazioni sul rifugio nei Tre Gioielli leggi l’articolo a questo link.
Tornando al concetto di Dharma, scopriamo quindi che esso incarna la Legge Universale che esprime l’intera realtà, ed e rappresentato da una ruota, la Dharmachakra, o “Ruota del Dharma”, a rappresentare il Nobile Ottuplice Sentiero Buddhista.
Senza approfondire l’argomento in questa sede, ci limitiamo a dire che questi cammini rappresentano il corretto comportamento da tenere per raggiungere l’Illuminazione (leggi subito “Samadhi: cosa si intende per ‘Illuminazione’?”). L’Ottuplice Sentiero, insieme alle Quattro Nobili Verità, fa parte degli insegnamenti di Gautama Buddha (Siddhārtha Gautama in sanscrito, devanāgarī सिद्धार्थ गौतमा), rivelati affinché tutti potessero conseguire l’Illuminazione.
Vivere in armonia con l’ordine del Cosmo conduce quindi ad un’esistenza serena e profonda, la cui meta è senza dubbio il risveglio spirituale.
Sempre nel Buddhismo, va evidenziato che il termine dharma, “scritto con l’iniziale minuscola, indica anche i diversi fenomeni osservabili, ovvero: tutti gli oggetti conoscibili, quelli della mente, gli oggetti materiali, le regole e le tradizioni religiose e i comportamenti virtuosi.”
Il “Sutra del Loto”, uno dei testi più importanti della letteratura del Buddhismo Mahāyāna, ci ricorda inoltre come il concetto di Dharma impone il suo peso anche nella cultura cinese e in quella giapponese.
In cinese “fă” (ideogramma: 法), in giapponese “hō” (kanji: 法, alfabeto sillabico hiragana: だるま, “daruma”), il Dharma sottende una vera e propria legge religiosa e morale, che include l’osservanza dei doveri ad essa inerenti riguardo alla vita sia religiosa che sociale.
La parola è tradotta anche come “Legge”, e in questo caso racchiude tutti i fenomeni, le cose, i fatti e le esistenze, come nell’espressione “il vero aspetto di tutti i fenomeni”, richiamando la realtà ultima del mondo di terza dimensione, e l’obiettivo intrinseco di coloro che percorrono correttamente il sentiero verso l’Illuminazione.
“La natura di Buddha è parte integrante della vita di tutte le persone. I suoi desideri e le sue azioni sono rivolti a far emergere la natura illuminata di ogni essere, facendo conseguire a ciascuno lo stato di Buddhità.”
Il Dharma nello Yantra Yoga
Lo Yantra Yoga è una disciplina tipicamente tibetana. Così come lo Dzogchen, del quale parleremo in un futuro articolo, anche lo Yantra Yoga considera l’essere umano composto da tre principali elementi/aspetti: a livello grossolano essi si manifestano come corpo, voce e mente, mentre a livello sottile la nostra esistenza si esprime nei corrispondenti canali, venti ed essenze vitali.
In questa corrente di pensiero, la Dharmachakra vista nel paragrafo precedente diviene il nome del chakra del cuore (vedi l’articolo “I sette Chakra… e tutti gli altri!”).
Nello Yantra Yoga questo plesso è il chakra dei fenomeni o della realtà, perché nei tantra l’area del cuore è in genere ritenuta la sede degli aspetti più sottili della mente, che è la base della manifestazione di tutti i possibili fenomeni (si veda anche “La mente nel cuore: un antico metodo scientifico per ritrovare il benessere psicofisico”).
Come specifica il “Libro Tibetano dei Morti”, la parola “tantra” indica contemporaneamente “la “corrente ininterrotta” che fluisce dall’ignoranza fondamentale verso l’illuminazione, e l’insieme delle antiche scritture che spiegano questi argomenti nell’ambito delle sei classi di tantra.”
Ogni filo si riallaccia nell’intricata tela della spiritualità orientale, e scopriamo un’interessante osservazione che collega le nostre energie vitali allo stato della nostra mente addormentata:
“Durante il sonno, la coscienza e il vento energetico principale convergono nel chakra del cuore. Immediatamente prima sorgono tre visioni: luce bianca, luce rossa e luce nera. Queste si manifestano nel momento in cui gli aspetti più grossolani della mente, associati all’attaccamento, alla rabbia e all’ignoranza, si dissolvono riassorbendosi nella natura stessa della mente.
[…] Quando ci si addormenta, queste tre visioni appaiono in forma sottile prima che si entri totalmente nello stato non concettuale del sonno, quando i venti energetici entrano nel canale centrale, ed ha le caratteristiche del dharmakāya, la dimensione della realtà stessa. Per questo motivo il chakra del cuore è chiamato dharmachakra.”
Il Dharmakāya è la dimensione essenziale che pervade e include tutto, senza dualismo, ineffabile e irraggiungibile tramite il ragionamento.
Allora, in ultima analisi, il Dharma costituisce uno degli strumenti, sepolti nella storia del genere umano, capace di aiutarci a superare l’illusoria esistenza terrena, conducendoci a riscoprire l’esistenza di un’anima immortale, e di un mondo eterno nascosto sotto l’apparente caducità dei fenomeni osservabili dai nostri limitati cinque sensi.
Agire secondo giustizia, per gli altri e non per se stessi, in armonia con il Cosmo e nel rispetto della natura… Azioni ormai dimenticate da una società che non è mai stata così vicina al fallimento.
Riusciremo a riprendere in mano le redini del nostro futuro? In che modo la nostra quotidianità può contribuire? E in quale misura la conoscenza è in grado di migliorare le sorti di un pianeta sull’orlo del collasso?
Ad ognuno la libertà di rispondere, ma, soprattutto, il dovere di agire.
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