“Il termine ignoranza indica l’assenza di illuminazione, l’oscurità. È come dire inganno, errore, illusione. Luogo di stallo è quello su cui la mente si ferma.”
Così inizia il Fudōchishinmyōroku (“La testimonianza segreta della saggezza immutabile”), raccolta in forma epistolare delle realizzazioni spirituali di Takuan Sōhō, monaco Zen nato in Giappone nel 1573.
In Oriente, fin dal remoto passato, saggi, mistici, monaci e guerrieri hanno sempre ricercato una “braccia” nella realtà lambita dai cinque sensi, un’apertura verso un universo immutabile e trascendentale, dove la consapevolezza divenisse parte integrante della nostra anima immortale.
Questo concetto è giunto a noi con il nome di “Illuminazione”.
Profeti e avatar appartenenti ad ogni credo religioso ne hanno lasciato traccia con le loro ambigue parole, limitati dai linguaggi umani, insufficienti a descrivere l’esperienza dello spirito.
È possibile, quindi, definire l’Illuminazione?
Lo stato di Samādhi (devánāgarī: समाधि) è l’apice della realizzazione spirituale, il superamento del velo di Maya e l’identificazione della propria coscienza con quella scintilla divina sepolta in ciascuno di noi, che accomuna ogni essere senziente rendendolo parte di un’unica famiglia e dell’Uno.
Sarebbe utopico pretendere di mettere nero su bianco qualcosa di simile!
In nome della conoscenza, tuttavia, possiamo sforzarci di raccogliere indizi, facendo appello alle testimonianze dei nostri predecessori e ai rari scorci di “lucidità” che costellano le nostre vite materiali.
Lampi di consapevolezza tra il medioevo e il ‘900
Anche la parola giapponese “Satori” (悟り), infatti, indica uno stato di Illuminazione, ma si tratta più che altro di un “vivido lampo di chiarezza”, più “accessibile” all’uomo comune, e non di una condizione permanente come il Samādhi.
Unendo tutte le tessere del mosaico che sono riuscito a raccogliere finora, posso azzardarmi ad ipotizzare un’analogia con il cosiddetto “abaissement du niveau mental” (abbassamento del livello mentale), descritto dallo psicologo francese Pierre Janet come un temporaneo affievolimento delle energie vitali, durante il quale, per usare le parole di Carl Gustav Jung, “il tono dell’inconscio si eleva, consentendo a questa parte di noi di sfuggire liberamente dalla gabbia del conscio”.
Questa “parte di noi” non è altro che la coscienza, libera dalle interpretazioni dei sensi e dalle illusioni di Maya.
Uno stato simile viene intuito dal celebre “vescovo-alchimista” medievale Alberto Magno, che nei suoi scritti ne parla così:
“Nell’anima dell’uomo dimora un certo potere capace di alterare le cose e subordinare ad esso tutto il resto, soprattutto quando essa è preda di un eccesso di amore oppure di odio. Quando, dunque, l’anima dell’uomo viene catturata da una qualche passione in modo inarrestabile, è provato tramite esperimenti che tale eccesso lega fra loro le cose in modo magico piegandole al suo volere, a ciò che desidera [vedi anche “Il potere della forza di volontà tra presente e passato”]. Chiunque voglia conoscere il segreto del fare e disfare questo genere di cose, sappia che è potere di ognuno influire magicamente sulle cose, qualora egli sappia abbandonarsi a una passione forte.”
Sull’amore ci sarebbe troppo da dire, ma l’argomento esula dal tema di queste pagine.
Ciò che è importante notare è il netto contrasto con l’abaissement di Janet: a quanto pare, è una condizione estrema del corpo o della mente a “spegnere la razionalità” quel tanto che basta per accedere ai mondi sovrasensibili.
Si tratta, tuttavia, di mere speculazioni. Senza esperienza diretta del fenomeno, l’unica possibilità che abbiamo per farci un’idea del concetto di Illuminazione è quella di raccogliere quante più testimonianze possibile dei grandi saggi del passato, abitanti di un mondo non ancora sedotto dal comfort, né ipnotizzato dai reality…
Fisica e poesia!
Ne “Il Tao della fisica”, il fisico Fritjof Capra evidenzia una stupenda analogia tra fisica moderna e misticismo orientale, cogliendo intuitivamente le affinità tra due mondi apparentemente agli antipodi (come abbiamo già approfondito nell’articolo “I ‘superpoteri’ dei mistici orientali spiegati dalla scienza moderna”):
“[…] Il misticismo indiano, e in particolare l’Induismo, presenta le sue affermazioni sotto forma di miti, servendosi di metafore e di simboli, di immagini poetiche, di similitudini e di allegorie. Il linguaggio mitico è molto meno condizionato dalla logica o dal senso comune.
[…] Secondo Ananda Coomaraswamy ‘il mito è la migliore approssimazione alla verità assoluta esprimibile con parole’.
[…] Tuttavia, chi in India è dotato di intuizione profonda sa che queste divinità sono creazioni della mente, immagini mitiche che rappresentano i molteplici aspetti della realtà.”
Sì, proprio le creazioni della mente che abbiamo incontrato nel precedente articolo, “Realtà o illusione? Il velo di Maya”, richieste dai maestri buddhisti della Via Diretta agli aspiranti naldjorpa come prova finale del loro apprendistato.
“[…] I mistici cinesi e giapponesi hanno trovato un modo diverso per affrontare il problema del linguaggio. […] I Taoisti si servono frequentemente di paradossi, proprio per mettere in luce le incongruenze che nascono nella comunicazione verbale e per mostrarne i limiti. Dai Taoisti questa tecnica è passata ai buddhisti giapponesi, che l’hanno ulteriormente sviluppata. Essa ha raggiunto la sua massima perfezione nel buddhismo Zen con i cosiddetti koan, quei rompicapo apparentemente privi di senso, che sono usati da molti maestri Zen per trasmettere il loro insegnamento.”
Il corrispettivo giapponese dei koan è la poesia, che ha raggiunto l’apice del suo sviluppo nello haiku, un componimento poetico classico di diciassette sillabe, disposte in tre versi.
Molti artisti del passato si sono cimentati in questi componimenti. Perfino i samurai scrivevano un haiku come lascito prima della battaglia che avrebbe potuto porre fine alla loro vita. Esso raccoglieva l’essenza del loro pensiero, delle loro conoscenze e dell’intuizione profonda che aveva dato un senso e uno scopo alla loro vita terrena.
Tutti questi elementi venivano amalgamati nelle parole dell’haiku, al tempo stesso semplici e criptiche, sintesi dello sforzo dell’anima del compositore di comunicare al mondo lo scorcio di realtà soprasensibile percepita ad un passo dalla morte.
La testimonianza del samurai Miyamoto Musashi
È proprio nei momenti precedenti la morte che il più famoso dei guerrieri samurai, Miyamoto Musashi, pone l’essenza del ku, il vuoto.
Si tratta, ancora una volta, del superamento del velo di Maya, della distruzione dell’illusione dei sensi di fronte alla verità più assoluta afferrabile in vita (in questo caso, per un guerriero): l’ineluttabilità della morte, la transitorietà della materia.
Negli istanti che compongono un duello all’ultimo sangue, la mente si placa, il pensiero svanisce, e tutto ciò che è ragionamento logico, razionalità e conoscenza strategica perde consistenza, assorbita nel vuoto della calma. Ecco il segreto della vittoria: lasciare che il fiume scorra, liberi da paure e costrutti mentali.
Per quanto l’uomo moderno possa solo immaginare le sensazioni scaturite da una minaccia mortale di questo tipo, anche nella nostre vite spesso ci lasciamo condizionare troppo dalle “conseguenze previste” dal pensiero razionale. Ne abbiamo parlato nell’articolo “Una ricetta per vivere sereni e consapevoli: impara a non farti guidare dal giudizio!”, osservando come le interpretazioni, causate dal nostro vissuto personale, spesso ci impediscano di cogliere la reale natura di un evento esterno o di un’emozione.
Il principio è il medesimo: il ku è “prendere coscienza” attraverso l’esperienza diretta, liberi da condizionamenti e pregiudizi. Superare il velo di Maya e “illuminare” la propria consapevolezza è una questione di intuito, raggiungibile soltanto se “fai di ku la tua Via e che la tua Via sia ku”, come ci rivelano le parole di Musashi.
L’esperienza diretta come chiave di conoscenza
L’esperienza diretta è il mezzo più concreto per conseguire qualsiasi tipo di realizzazione. Nell’introduzione a “Il mattino dei maghi”, di Jacques Bergier e Louis Pauwels, quest’ultimo ricorda una peculiare osservazione del padre: egli era solito dirgli, sorridendo, che “il tradimento dei ‘chierici’ era cominciato il giorno in cui uno di essi aveva rappresentato per la prima volta un angelo con le ali: al cielo si sale con le mani.”
Le mani sono lo strumento per mezzo del quale abbiamo conquistato questo mondo terreno, e possono aprirci le porte anche ai mondi sovrasensibili, come abbiamo già accennato in “Mandala, Mantra e Mudra: arti del suono e geometrie sacre”.
Madame Blavatsky, nell’immenso saggio “Iside Svelata”, si spinge molto oltre, riportando le testimonianza degli uomini del passato che hanno saputo sfruttare al meglio ogni strumento concesso dal “veicolo fisico”: le mani – il corpo, la mente, il respiro, l’energia vitale, l’“intuizione dinamica”, ecc.
Ma, nonostante ciò, nonostante gli sforzi e una vita dedita all’allenamento spirituale e alla meditazione, la Blavatsky ci ammonisce sull’esistenza di una condizione apparentemente insormontabile:
“[…] il soggetto può tutt’al più gettare solo delle rapide occhiate sulla verità attraverso il velo interposto dalla natura fisica [ennesimo riferimento a Maya!]. Il principio astrale, o mente, chiamato dallo yogi indù fav-atma, è l’anima senziente, inseparabile dal nostro cervello fisico, che tiene in soggezione e da cui è a sua volta egualmente ostacolata.
Questo è l’ego, il principio vitale intellettuale dell’uomo, la sua entità cosciente. Mentre è ancora entro il corpo materiale, la chiarezza e l’esattezza delle visioni spirituali dipendono dalle sue più o meno intime relazioni con il suo Principio superiore, quando questa relazione è tale da permettere alla più eterea parte dell’essenza animica di agire indipendentemente dalle sue particelle più grossolane e dal cervello, l’uomo può comprendere senza errori quello che vede, e solo allora si tratta dell’anima pura, razionale e supersenziente.
Questo stato è conosciuto in India come samâdhi: è la più alta condizione di spiritualità possibile all’uomo sulla terra.
[…] E tuttavia, poiché il principio senziente del cervello è vivo e attivo, queste immagini del passato, del presente e del futuro saranno intinte delle percezioni terrestri del mondo oggettivo; la memoria fisica e la fantasia ostacoleranno una chiara visione.
Ma il veggente adepto sa come sospendere l’azione meccanica del cervello. Le sue visioni saranno chiare come la verità stessa, non colorate e non distorte, mentre il semplice chiaroveggente, incapace di controllare le vibrazioni delle onde astrali [vedi “Dimensioni quantistiche e Yogin vegani” oppure “La composizione della macchina umana: corpi sottili e aggregati vibrazionali”], percepirà immagini più o meno distorte dall’azione mediante del cervello.
Il vero veggente non potrà mai prendere per realtà le ombre ondeggianti perché la sua memoria è completamente soggetta alla sua volontà come il resto del corpo, ed egli riceve impressioni direttamente dal suo spirito [la volontà che sottomette il corpo e la mente, creando una connessione diretta con lo spirito… Puoi approfondire questo principio nel già citato articolo “Il potere della forza di volontà tra presente e passato”].
Fra il suo sé soggettivo e l’oggettivo non vi sono ostacoli medianti. Questa è la vera veggenza spirituale, nella quale, secondo un’espressione di Platone, l’anima è elevata al di sopra di ogni bene inferiore. Allora raggiungiamo ‘quello che è supremo, quello che è semplice, puro e immutabile, senza forma, colore né altre qualità umane: Dio o il Nous.’”
Conclusioni… Oppure no?
Mi rendo conto delle molte citazioni, provenienti da vecchi libri, spesso in un lessico di difficile comprensione, relative ad argomenti non proprio in primo piano. Ma forse questo “collezionare tracce” è l’unico modo per conservare la memoria di una conoscenza perduta, sforzandoci di esplorare e capire questi antichi interrogativi umani, che stanno pian piano soccombendo alla mondanità e all’oblio del tempo, insieme ad una parte importantissima della nostra stessa natura.
La direzione intrapresa dell’evoluzione contemporanea sembra aver lasciato alle ombre alcuni aspetti del nostro Io…
Che sia questa la decisione giusta?
Quanto stiamo guadagnando e quanto invece stiamo perdendo?
A volte gli inganni più potenti vengono perpetrati sotto la luce del sole, mentre ciò di cui abbiamo davvero bisogno resta celato nell’ombra…
Che ognuno compia la propria scelta, rivolgendo a se stesso le precedenti domande e trovando le risposte più affini alla propria identità, ricordando che in un universo duale spesso luce e buio sono due facce intercambiabili della stessa medaglia, e che la cosiddetta “Illuminazione” esiste oltre lo spazio ed il tempo, oltre le scelte e gli sbagli, oltre le paure e le battaglie nelle quali rimaniamo invischiati ogni giorno…
A volte, un semplice e brevissimo “guizzo di consapevolezza” può fare la differenza in un intero arco vitale
0 commenti